Se da un lato il nostro tempo cerca in tutti i modi di stralciare l’evento della morte dal proprio orizzonte esistenziale e simbolico, dall’altro cade invece in contraddizione con questa tendenza quando si serve della morte – in particolar modo quella più tragica, traumatica e violenta – per fini mediatici e commerciali. Questo aspetto non costituisce certamente una novità. Da decenni infatti, nascondendosi dietro il diritto-dovere di informare, televisioni e mass media utilizzano la morte come opportunità per aumentare gli ascolti e ottenere un tornaconto economico. La morte viene spettacolarizzata al fine di agganciare emotivamente lo spettatore televisivo, aumentare le vendite di giornali e recentemente aumentare visualizzazioni, interazioni e condivisioni dei post sui social network. Questo è accaduto anche di recente quando è stato reso pubblico il video della caduta della cabinovia sul monte Mottarone che ha causato la perdita di quattordici vite umane. Pochi i canali mediatici che per rispetto della morte e del dolore di coloro che hanno tragicamente perso i propri cari si sono astenuti dal pubblicarlo. Allo stesso modo nel caso della tragica morte di Elisa Campeol solo alcune testate hanno rinunciato ad approfittare del nefasto evento per rispetto. Decisioni sempre più rare quelle di rinunciare al tornaconto economico e commerciale in cambio di valori etici non negoziabili. La morte, parte integrante della nostra costitutiva essenza, va inserita in una cornice etica di rispetto per il dolore indicibile della perdita, di custodia del silenzio che si addice ad ogni morte che, a sua volta, porta con sé sempre un quota significativa di mistero che interpella l’interiorità umana.
Già nel 1994, in un breve saggio intitolato Cattiva maestra televisione, il filosofo austriaco Karl Popper si era espresso chiaramente denunciando gli effetti diseducativi ai quali vanno incontro gli ascoltatori sovraesposti all’informazione televisiva e mediatica costituita da sensazionalismo, violenza e pornografia che interferiscono con la libertà delle menti. Riportando l’attenzione su questi rischi, l’intellettuale viennese aveva proposto di rendere obbligatorio un brevetto per tutti gli operatori mediatici che può essere revocato qualora chi ne sia in possesso contravvenga ad una serie di principi etici e morali. Precisamente, l’ambivalenza che contraddistingue i diversi mezzi di comunicazione è costituita dal fatto che in potenza sono strumenti utili per veicolare messaggi e informazioni che contribuiscano alla promozione e alla crescita umana e sociale, dall’altro sono mine vaganti qualora si disponga di essi senza una necessaria educazione critica al loro uso.
Nel tempo l’orizzonte mediatico non è cambiato, anzi è sempre più soffocante. Non possono qui non tornare alla mente le parole della canzone “C’è un’aria” scritta e incisa da Giorgio Gaber a metà degli anni novanta. Con un ritratto di intramontabile attualità, il cantautore milanese descrive lo scenario mediatico, ne evidenzia le contraddizioni ed esprime l’esigenza di un respiro personale e sociale costruito a partire da un pensiero libero e non inquinato dall’informazione di massa che non ci rende affatto più edotti o competenti. “Lasciateci almeno l’ignoranza – canta Gaber – che è molto meglio della vostra idea di conoscenza”. La canzone è intervallata dall’incisivo ritornello “c’è un’aria, un’aria che manca l’aria” che esprime il senso di asfissia causato da quello che il cantautore stesso definisce il “gusto morboso nel mestiere di informare”.
Non possiamo non condividere l’espressione di quella che è l’esigenza più autentica e profonda a fronte del contesto comunicativo nel quale siamo – spesso inconsapevolmente – immersi. Il bisogno urgente di spegnere il rumore di fondo e ritornare a noi stessi: “lasciatemi col gusto dell’assenza lasciatemi da solo con la mia esistenza”. L’invito di Gaber è quello di non farsi sommergere da una modalità di informare ambigua e invadente come dimostra il modo in cui vengono trattati temi e argomenti che, come la morte, richiederebbero piuttosto discrezione, delicatezza, sacralità, rispetto e non barbara e morbosa spettacolarizzazione per meri interessi economici e commerciali.
Articolo pubblicato in data 15 luglio 2021 sul settimanale L’Azione.