La stagione estiva è riconosciuta da buona parte delle persone – eccezion fatta per alcune particolari categorie di lavoratori -come il periodo dell’anno nel quale è consentita una pausa, più o meno lunga, dagli impegni lavorativi. Alle ferie si associano comunemente il riposo, la cesura con la frenesia quotidiana, il cambio di ambiente e il desiderio di vedere e sperimentare qualcosa di diverso dall’ordinario. Se questa ambizione è legittima e in larga parte condivisa, non è difficile, soprattutto per chi si occupa di relazione d’aiuto, ascoltare narrazioni di persone che nelle vacanze cercano qualcosa di diverso. Esplorando il vissuto dei singoli si coglie spesso un bisogno di “vacanza” che non è quello comunemente veicolato dai mass media, dai social network e dalle agenzie turistiche. Invero, emerge sempre più spesso nelle persone il desiderio di un tempo di riposo che possa essere rigenerante non solo dal punto di vista fisico ma anche sotto l’aspetto psicologico e spirituale. Un periodo nel quale riprendere il contatto con sé stessi, mettendo momentaneamente tra parentesi incombenze e preoccupazioni quotidiane.
Un tempo di qualità per il corpo, la mente e lo spirito è un tempo nel quale prendersi cura di sé, della propria interiorità, per mettere ordine, per meditare, per ricollegarsi con le proprie passioni, per ritrovare l’energia interiore, con essa il senso e le motivazioni di quello che facciamo e soprattutto di chi vogliamo essere. In un’epoca, come quella presente, caratterizzata da una strutturale precarietà sociale, politica, economica e da un conseguente disorientamento esistenziale, dedicarsi alla cura di sé può essere vitale. In tal senso le vacanze devono essere non solo un periodo di ristoro fisico ma pure un tempo nel quale alimentare adeguatamente se stessi, la propria interiorità.
In questa direzione, il silenzio è certamente l’elemento fondamentale da richiamare. Nel nostro tempo, nel quale il silenzio sembra sotto attacco, è indispensabile chiudere il rumore fuori di sé. Qui, per rumore, non intendiamo solamente quello sonoro che avvolge le nostre città ma anche quel continuo “rumore di fondo” costituito da nuove distrazioni che ci attraggono in ogni istante delle nostre giornate calamitandoci insistentemente. Il silenzio è dunque un bisogno umano che chiede di essere riconosciuto e, se nel vortice della quotidianità questa dimensione viene sistematicamente esclusa, è proprio quando ne abbiamo la possibilità che è opportuno cercarla, coglierla e viverla.
Nondimeno, il silenzio predispone all’ascolto di sé e dell’altro. Nel silenzio è possibile incontrare se stessi, conoscersi, comprendersi, donarsi uno sguardo compassionevole rispetto alle proprie dinamiche interne, alla propria storia, al proprio percorso esistenziale. Nell’atmosfera del silenzio si può inoltre praticare l’attenzione – tra i più importanti esercizi spirituali nella filosofia antica e facoltà fondamentale per Simone Weil che la faceva coincidere con la preghiera – verso quello che stiamo facendo, momento dopo momento, partendo dal proprio respiro, prendendo consapevolezza della propria presenza nel qui e ora.
Una volta immersi nel silenzio, che ci confronta con noi stessi, è possibile ritornare rinnovati a dialogare con l’esterno, per esempio con la natura – con la quale è verosimile riassaporare un’originaria comunione, simbolo di una fratellanza generatrice di inesauribile ricchezza simbolica e interiore – e con gli altri in maniera più consapevole. In questo senso l’esperienza del silenzio è del tutto personale e in quanto tale non può essere che intima e profonda. Pertanto, una volta riscoperto, il silenzio diventa una forza, un’opportunità inalienabile di rientrare in se stessi come in una fortezza inespugnabile. Indubbiamente il silenzio necessita della solitudine intesa come capacità, affatto scontata, di saper stare soli con se stessi, in un interminabile colloquio interiore grembo fecondo di slanci creativi, psicologici, relazionali e spirituali.
Concludendo, l’augurio che possiamo farci è quello che le vacanze siano valorizzate come un tempo prezioso per prendersi cura di sé nella propria globalità e non solo come un tempo che, anziché essere per sé, rimane subordinato al discorso sociale, economico e culturale dominante. Pertanto, viviamo la vacanza come tempo di cura di sé e dunque di cura del senso e della direzione della propria esistenza, come ricerca, consapevolezza e indispensabile nutrimento per l’anima. Una cura di sé che non si fermi al proprio ombelico, altrimenti sarebbe zoppa, ma che divenga capacità di prendersi cura di tutto quanto è altro da noi. Solo così sarà possibile riconoscere e assumere su di sé l’esistenza sia come questione individuale sia come questione collettiva.
Articolo pubblicato sul settimanale L’Azione in data 1 agosto 2024.