Aggressività e potere: educazione e cultura per combattere una patologia dilagante

Il tempo presente, come evidenziato dal recente efferato omicidio di Giulia Tramontano, è segnato dalla cifra tragica dell’aggressività denominatore comune di molte manifestazioni umane. Analizzando la realtà sociale e relazionale degli abitatori di questo tempo non è possibile non notare come questa si caratterizzi per una crescente dose di violenza distruttiva diretta verso gli altri e talvolta, o conseguentemente, verso sé stessi. Infanticidi, femminicidi, suicidi, violenze domestiche e scolastiche, episodi di bullismo nelle sue diverse declinazioni, abusi fisici e psicologici. Un’ascendenza di prepotenza e crimini. Espressioni di un’emergenza psicologica e sociale, di un dilagante vuoto esistenziale e così pure di un declino culturale e educativo che si estende in proporzione sino a condurre alle inaccettabili e ingiustificabili guerre che travagliano il mondo intero, anch’esse caratterizzate dall’inclinazione alla distruttività.

Sono gli esiti di una patologia sotterranea che attraversa come una corrente carsica l’essere umano: il potere con la sua volontà di imporsi e di sottomettere tutto ciò che è altro da sé. Il potere, malattia sociale, trova terreno fertile nell’egoismo, patologia individuale, che induce a rapportarsi agli altri come semplici mezzi in vista dei propri fini. Nel culto dell’Io, l’altro viene percepito come strumento di cui liberamente disporre e viene così privato della sua umanità, per essenza portatrice di valore. L’egocentrismo disintegra le relazioni, frantuma i legami sociali e annulla la convivenza. L’illusione delirante del potere, lungi dall’innalzare l’essere umano lo svilisce impedendone la fioritura. In quanto legato alla pulsione di morte il potere è sempre antagonista alla vita.

Così, nell’essere umano regrediscono le funzioni superiori. La razionalità, la consapevolezza, la risonanza emotiva, la capacità di decidere che cosa essere e che cosa fare di sé stessi integrando istinti e pulsioni e mediando fra di essi stanno venendo meno. L’altro è percepito come un nemico da combattere e eliminare in quanto ostacolo alla realizzazione del proprio desiderio di godimento che si declina nella fame di potere, prestigio e ricchezza. In questo senso siamo dinanzi ad una vera e propria regressione antropologica che evidenzia il disagio della nostra civiltà.

In un siffatto scenario sembrano evaporare i fondamenti della nostra cultura che si lega a Platone, per esempio, al quale dobbiamo la fondazione dei concetti astratti, che consentono di liberare idee le quali ci innalzano al di sopra del già dato, consentendoci di progettare e migliorare il consorzio umano fino a renderlo fecondo per le più nobili possibilità di espressione dell’umano.

Diversamente, la distruttività frantuma i principi primi dell’etica che regolano la convivenza civile. Fra questi come non ricordare il basilare diritto alla vita e la sacralità dell’altro da noi, dai quali consegue il rispetto per l’esistenza e l’impegno affinché l’altro possa farla sbocciare. Una civiltà che dimentica i principi primi dell’etica ereditati dalla filosofia greca, dalla tradizione ebraico-cristiana e mirabilmente portati a compimento dal magistero di Gesù di Nazareth, è una civiltà destinata a perire. Se a questo associamo il venir meno delle conquiste dell’Umanesimo europeo che ha riconosciuto all’uomo la possibilità di scegliere se adagiarsi ad una vita flessa sotto la spinta degli istinti e delle pulsioni oppure innalzarsi verso la bellezza di una vita di pensiero e azioni che siano l’esito di facoltà superiori, allora è chiaro come sia a rischio l’umano nell’uomo.

Dinanzi alle ombre dell’involuzione antropologica è fondamentale recuperare i fondamenti etici e culturali che ci precedono e che non sono mai garantiti una volta per tutte. Infatti, mentre istinti e pulsioni sono legati alla nostra corporeità, la cultura e il vivere civile sono conquiste umane che appartengono al patrimonio educativo. Per questo, la salvaguardia di tali dimensioni passa attraverso un’instancabile opera educativa che contrapponga alla parola Io e alla patologia del potere che ad esso si lega, la parola Noi. Un orizzonte dove venga tutelata la fragilità che ci abita e l’apertura all’altro e ai legami non per servirsene ma per consentire reciprocamente all’esistenza di fiorire nelle sue possibilità più proprie e questo può avvenire solamente in un contesto che promuova la crescita di ciascuno nell’interesse di tutti.

 

Articolo pubblicato in data 22 giugno 2023 sul settimanale L’Azione.

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